Palestina, un espediente per chi specula

bandiera palestineseProblema Palestina: urge sanarne le ferite. Il riconoscimento voluto da Bergoglio è una soluzione? I disordini di queste ore a Gaza sono giustificati?

questo articolo, del 31 maggio 2015, è tuttora valido

Roma, 31 maggio 2015

Ricostruiamo com’è nato il lemma “Palestina” e a quali interessi è riconducibile.

1916 «Accordo segreto sull’Asia Minore»: la Palestina non esisteva

Autorevoli storici sostengono la preesistenza d’una nazione palestinese al primo dopoguerra, documentata, a sentir loro,  dall’accordo segreto del 1916 tra francesi e inglesi (The Sykes–Picot Agreement) per la spartizione delle aree di influenza sull’Asia Minore. Anni addietro questa tesi fu udita anche durante una lezione di storia militare, in una prestigiosa scuola dell’Esercito. Tale falsità è offerta anche da molti insegnanti (sic) di storia. Tale asserita (e falsa) preesistenza d’una nazione palestinese al primo dopoguerra contribuisce a irrobustire la catena dell’odio.
François Marie Denis Georges Picot, diplomatico francese, era prozio di Valéry Giscard d’Estaing, presidente della Francia dal 1974 al 1981. Col pronipote condivise molte qualità: oltre all’intelligenza affilata, sicuramente un disinvolto pragmatismo sconfinante nel cinismo. Picot portò a casa un notevole bottino mediante l’accordo segreto sull’Asia Minore, stipulato col britannico Mark Sykes, dopo una trattativa prolungatasi fra novembre 1915 e marzo 1916. Il colonnello Sykes godette l’incondizionata fiducia del suo governo per conto del quale spartì il Medio Oriente in due aree di influenza, assicurando alla Gran Bretagna comunicazioni sicure dal Mediterraneo alle Indie, controllando il territorio oggi corrispondente grosso modo a quello di Israele, Giordania e Iraq. La Francia ebbe Libano e Siria.
[cryout-pullquote align=”left” textalign=”justify” width=”33%”] Gli odierni sostenitori dello ius soli per i migranti negano analogo diritto agli ebrei che affluirono dagli inizi del secolo scorso[/cryout-pullquote]

Sykes portò il risultato alla Conferenza di pace di Parigi, apertasi il 18 gennaio 1919, ma non ne vide la conclusione: lo fulminò la febbre spagnola un mese dopo. Giusta punizione per i confini tracciati con riga e compasso, i confini che oggi ci creano tanti problemi? Se l’avesse scampata forse la spartizione sarebbe stata meno brutale? Inutile congetturare. Importante è invece rilevare l’assenza di qualunque riferimento a “Palestina” nell’accordo franco-britannico. D’altronde l’impero ottomano compendiò quel territorio come somma di più province: Sangiaccato[1] di Gerusalemme, Sangiaccato di Nablus, Sangiaccato di Gaza, Sangiaccato di Acri, con una parte del Vilayet di Siria e del Vilayet di Beirut. Pur tuttavia in quegli anni era cominciata la confusione che tuttora imperversa e, non nascondiamolo, ha fatto comodo a molti, specialmente quanti avevano da guadagnare sul mercato del petrolio grazie alle tensioni, generosamente procurate in quell’area, dai cartelli petroliferi, da mussulmani a spese dei palestinesi e da ebrei a spese di ebrei, da farabutti a spese di tutti i malcapitati; come vedremo accade tuttora.

Palestina, la storia genuflessa alla politica dei petrolieri

L’accordo franco-inglese del 1916 non ha dunque alcuna attinenza con la cosiddetta Palestina odierna. Gli ostinati fautori della genuflessione della storia alla politica obiettano tuttavia che la Palestina fu provincia dell’Impero romano quindi, preesistendo a Israele nato nel 1948, gli eredi hanno ben più solidi diritti degli ebrei per rivendicare quelle terre.
Un tal modo di ragionare nei cosiddetti storici conferma che essi manipolano il passato, come sosteneva Paul Valery, alla stregua dei cartomanti il futuro, con la differenza che i vaticini di questi possono essere verificati. Nel metodo, occorre ricordare che Palestina non poteva essere annoverata nel catalogo ottomano delle province: la Sacra Porta mai avrebbe ammesso l’aborrita radice ebraica di essa.
Nel merito, richiamando il lemma latino Palaestina, si evocano le popolazioni ebraiche di cui parla già Erodoto, tuttavia con accezione differente da quella poi intesa con l’imperatore Adriano, la cui “Syria Palaestina” comprendeva Iudaea, Samaria, Galilaea, Philistaea e Perea, un territorio molto vasto, un secolo dopo Cristo. Secondo questa interpretazione quindi gli ebrei potrebbero rivendicare un territorio ben più vasto dell’attuale Israele.
D’altronde, se Palestina deriva dalla regione imperiale romana, è a fortiori impossibile sostenerne la radice mussulmana. Se invece la si intende escrescenza del Frankstein diplomatico franco-britannico, l’identità nazionale palestinese è ancor meno definita rispetto a quella israeliana, giustappunto preesistente ab antiquo, mentre Maometto ci portò la sua festosa civiltà ben cinque secoli dopo Cristo. In quanto alle “terre espropriate ai palestinesi”, è un falso storico: la Sacra Porta applicò un regime poliziesco e fiscale di rara spietatezza, lasciando ai privati minime porzioni di terra, di pessima qualità agricola.

Per inciso, è curioso ricordare che tanto la diaspora come il ritorno siano ascritti ai “colpevoli” ebrei e gli stessi odierni entusiasti sostenitori dello ius soli per i migranti negano analogo diritto agli ebrei che affluirono dagli inizi del secolo scorso.
Nel primo dopoguerra (complice anche la strategia lungimirante di Stalin) gli ebrei arrivarono in massa. Nel 1925 erano già 122.000; in seguito aumentarono a causa delle migrazioni dalla Germania. Le prime scaramucce s’accesero sin dal 1921. Gli inglesi furono indotti a proporre “due Stati” fin dal 1937. Fallirono perché i confini scontentavano tutti.
Nel 1939 la popolazione mussulmana era ben oltre un milione; quella ebrea era già a quota 550mila con tendenza crescente. La Gran Bretagna si rese conto che il suo mandato a governare si faceva impossibile e chiese alla Società delle Nazioni di risolvere la questione.
La Società delle Nazioni, estintasi il 18 aprile 1946, malgrado i suoi catastrofici insuccessi, è a buon diritto progenitrice dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, la cui assemblea, a maggioranza dei due terzi[2], decise nel 1947 di istituire due Stati separati, Palestina e Israele, con Gerusalemme “città internazionale”. Il mandato inglese finiva nel 1948. Nessuno degli Stati mussulmani confinanti accettò la soluzione dell’Onu. Oggi taluni teorizzano la carenza di legittimità in quel voto delle NU. Comunque la si voglia vedere, il riconoscimento della Palestina era a portata di mano e fu buttato via. Gli avvenimenti successivi offrono un quadro incontrovertibile delle responsabilità. 

Il diritto su cui fonda l’esistenza dello Stato di Israele

Gli eserciti di Egitto, Transgiordania, Siria, Libano, Arabia Saudita e Iraq assalirono Israele il giorno dopo la sua dichiarazione di indipendenza. Intendevano distruggere il nuovo Stato, il cui primo riconoscimento era già avvenuto da parte dell’Unione sovietica. Israele sconfisse gli assalitori. Il resto, più o meno noto, consegue da quei giorni.
Il generale De Gaulle apre il capitolo “Europa” delle sue memorie con una frase lapidaria: «Gli Stati nascono e muoiono con la guerra». Piaccia o meno, è una verità incontrovertibile. Chi ne dubiti lo chieda al Kosovo e ad altri di quelle parti. Se Israele fino al 1948 fu carente di fisionomia di Stato-nazione, l’assalto delle orde mussulmane, come avrebbe detto Talleyrand, più che un crimine fu un errore: regalò a Israele il diritto di esistere, condannando i cosiddetti palestinesi a vivere d’elemosina. Gli Stati mussulmani lasciarono infatti in condizione precaria i disgraziati di cui s’erano autoproclamati difensori, facendone una clava politico militare, illudendosi di influire sul mondo col costo del barile, sensibile alle tensioni internazionali, ieri come oggi. Divennero strumento del terrorismo ovvero miccia delle guerre che hanno marcato le crisi petrolifere e i conseguenti aggiustamenti al rialzo del barile. Mano a mano che il tempo trascorreva, la fisionomia palestinese sembrò definirsi più nettamente e più autonomamente che in passato; il brutto passato marcato prima dal padrone turco e poi da quello inglese. Quest’ultimo, cessato il suo mandato, aveva continuato a mestare da Londra, dove tuttora il mercato petrolifero ha un punto focale. A ben vedere, quello che è sembrata un’evoluzione politica sociale era solo l’esito d’un ulteriore cambio di padrone, che aveva interessato tutta l’area col ritiro della Gran Bretagna. Come si vede oggi con maggiore chiarezza, dopo le cosiddette “primavere”, l’Islam è la concubina degli USA. Se gli amanti si tradiscono più o meno frequentemente senza nasconderlo, di certo non si curano più di tanto della cosiddetta Palestina, autocondannatasi all’irrilevanza.

Ebrei, amici sbagliati e amici veri

In questo ginepraio è entrato papa Bergoglio, sembrando equidistante con la pittoresca “iniziativa di preghiera” agli inizi di giugno 2014; una volgare finzione. Il riconoscimento era previsto e pianificato proprio per il 13 maggio dell’anno successivo. Così Bergoglio ha esaudito un desiderio di Obama, il riconoscimento che l’ospite della Casa Bianca avrebbe voluto realizzare sin dal suo primo mandato, senza tuttavia riuscirvi. Non poteva concludere il secondo mandato, ottenendo solo un progressivo avvicinamento di Israele alla Russia. Ha ordinato a Bergoglio di aiutarlo e lo ha ottenuto. In cambio di che cosa? Molti sono convinti che la risposta non sarà edificante per la Chiesa.
Oggi il governo di Gerusalemme si dice “deluso”, con ciò confermando una tendenza secolare degli ebrei a illudersi, confidando negli amici sbagliati. Fra questi i tanti delle cooperative cattoliche romane, proprio gli amici di Bergoglio, quelli che hanno brigato per la sua elezione e che sono in affari miliardari coi palestinesi, dagli albori di Giulio Andreotti.
A proposito di amici degli ebrei, giovi ricordare che sia l’entrata in scena di Obama sia quella di Bergoglio fu salutata con grande favore da una parte rilevante del mondo ebraico. D’altronde la crescente ostilità verso Israele, nella Curia vaticana, tanto negata quanto concreta e operante, ha non pochi motivi di potenziarsi grazie al combinato disposto delle rispettive fabbriche di odio, in Israele e nella Cristianità, soprattutto ad opera di quanti siano privi d’una visione religiosa del rapporto fra cattolici ed ebrei.
San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI furono invece poderosamente convinti che il rapporto fra le due Fedi fosse provvidenziale. Il papa polacco il giorno dopo la sua elezione invitò a pranzo tutta la famiglia del suo amico d’infanzia, l’ebreo Jerzy Kluger[3], ponendo la questione del riconoscimento di Israele. Kluger portò il messaggio dell’amico pontefice alla Sinagoga, al grande Elio Toaff, avviandosi il lavorio che andò a buon fine dopo quindici anni, col riconoscimento fra Vaticano e Israele.
Quel pranzo fra i due amici di infanzia e la questione del riconoscimento non sfuggì alle orecchie attente nella Curia e fu una delle ragioni che armò una mano mussulmana per sparare al Papa il 13 maggio 1981, giorno della Madonna di Fatima. Dietro Ali Agca c’era l’Unione sovietica, non da sola tuttavia. Una potenza sparò e le rimanenti voltarono il capo dall’altra parte.
Bergoglio ha voluto che il riconoscimento della Palestina, il 13 maggio 2015, cadesse nell’anniversario dell’attentato al grande San Giovanni Paolo II oppure, come altri rimarca, nel giorno della Madonna di Fatima, la Santa Vergine che ci ha salvato dalla Terza guerra mondiale. Nel primo caso sarebbe uno schiaffo alla memoria del grande papa polacco, nel secondo un atto di fede. Un altro espediente del “maestro di ambiguità”, come lo chiamano da tempo? Possibile, tuttavia occorrerà di certo un altro miracolo, perché l’«angelo della pace», Abu Mazen, presiede infatti una forza politica il cui scopo dichiarato è la distruzione di Israele. In altre parole si è dato vigore di Stato a un’entità nata per accendere e alimentare la fiamma della guerra.
Questo riconoscimento insomma getta nella spazzatura l’obiettivo di san Giovanni Paolo II di arrivare al riconoscimento della Palestina attraverso un reciproco e pacificatorio riconoscimento fra Palestina e Israele. Riuscirà Bergoglio dove Giovanni Paolo II ha fallito? Speriamo; se fallisce il suo pontificato ne sarà segnato.

Autolesionismo ebraico

Questo esito non è solo una responsabilità cattolica. Innanzi tutto occorre capire che grazie a una serie infinita di errori di comunicazione, nell’immaginario collettivo c’è un “Davide palestinese” e un “Golia israeliano”. Quando gli ebrei lamentano l’ostilità della stampa, spesso dovrebbero fare l’appello delle varie testate e degli ordini dei giornalisti per rendersi conto che gli ostili come Gad Lerner non sono affatto pochi. D’altronde, se il progetto del papa polacco ebbe un senso, e lo aveva, non tutti gli ebrei hanno aiutato il suo disegno. Anzi, dal 1993 in avanti vi fu una mitragliata di sabotaggi ai buoni rapporti fra cristiani ed ebrei, partita sia dalle cerchie clintoniane, eredi delle visioni oscure di Saul Alinsky[4], sia dai kibbutz israeliani. L’uscita del film Passion[5] infuriò gli ebrei, specialmente i laici, perché sottolineava la carnalità e la realtà storica di Cristo. Il pretesto del film si attagliava ai mestatori che lamentarono un rinfocolamento dell’accusa di deicidio. Chi guardi la pellicola senza pregiudizio si rende conto che semmai deicidi sono i soldati romani. D’altronde il “deicidio” fu una sciagurata questione apparsa nei testi cattolici fin dai tempi di Costantino. La riforma del messale operata da Giovanni XXIII, la politica lungimirante di apertura di Paolo VI [6] e, nei fatti, la sollecitudine verso gli ebrei da parte di PIO XI e PIO XII avevano cancellato la questione “deicidio”. Con l’irrompere sulla scena di Giovanni Paolo II, la fraternità fra cattolici ed ebrei sarebbe dovuta essere un fatto acquisito. Non fu così, perché il film Passion fu pretesto per demolire il lavoro pacificatorio di Giovanni Paolo II e la manovra culminò con l’affissione della targa infamante Pio XII al museo di Yad Vashem, a febbraio 2005, quando cioè Giovanni Paolo II non aveva più la forza di reagire.  Il testo della targa è stato poi annacquato e questo la dice lunga sulla serietà dei suoi promotori occulti, fra i quali un ex gentiluomo di Sua Santità, cacciato per indegnità e sedicente amico degli ebrei. Un altro dei tanti.
La separazione fra mondo cattolico ed ebraico è proseguita, nel segno dell’autolesionismo ebraico, col sostegno più o meno convinto degli ebrei alle politiche contro la famiglia, partite dagli Usa per mano delle solite maleodoranti cerchie clintoniane. Così quanti in Vaticano odiano gli ebrei e quanti fingono di amarli hanno avuto buon gioco.

Palestina, il presente e il futuro

Interrogarsi troppo su che cosa accadrà può essere blasfemo, come ammonì Benedetto XVI, ricordando che “il futuro è nelle mani di Dio”. Gli esiti di questo riconoscimento tuttavia incuriosiscono quanti si chiedono se i catastrofismi e gli ottimismi di qua e di là del Tevere siano giustificati.
Il dato di fatto è l’impossibilità di tornare indietro. Ne consegue una via obbligata a proseguire verso il completo riconoscimento. Tempi e modi faranno la differenza. Un autorevole ebreo romano sostiene che questo riconoscimento metterà in chiaro una volta per tutte che Abu Mazen, “che ha fatto l’accordo coi Crociati”, è il vero nemico di Hamas, non Israele. D’altronde lo stesso personaggio ricorda che uno Stato palestinese effettivo significherà affrancare le casse di Israele da una quantità di oneri. Finora, ricorda, si è reclamata “libertà per il popolo palestinese“. Non appena la Palestina sarà uno Stato a tutti gli effetti sarà chiaro chi sono i veri oppressori. 
E la bomba demografica? Chiediamo. Non ha dubbi: la crescita esponenziale della popolazione palestinese potrebbe comportare la crescente tensione fra le due parti, ma il riconoscimento né migliora né peggiora questa situazione. La bomba demografica avanzerebbe comunque e funzionerà solo se i palestinesi saranno mantenuti in condizioni di sottosviluppo dai loro “fratelli mussulmani”, osserva con malizia; tutt’al più vi saranno altre guerre, ma non è un pensiero che ossessiona gli ebrei, abituati al fucile a portata di mano.
Difficile dargli torto. La Palestina, con o senza la dignità di Stato, rimane ai margini del mondo moderno, è indietro di almeno trent’anni ed è difficile che riesca a risollevarsi nonostante le enormi ricchezze a portata di mano e quelle giuntele sotto forma di aiuti. I capi politici palestinesi muoiono miliardari, il popolo muore nel fango. Il riconoscimento potrebbe acuire questa contraddizione piuttosto che sanarla. A questo si aggiunga che gli Stati Uniti non sembrano in grado di esercitare alcuna politica di equilibrio nell’area. 
Allo stato dei fatti, l’interesse di Israele è andare verso uno Stato palestinese facendo una “politica dei due forni” con gli USA e con la Russia, senza dimenticare che il fornaio più affidabile oggi è a Mosca, almeno finché a Washington non rinsaviranno dalle ubriacature radicali. In tale quadro, la Palestina oramai è a un passo da un riconoscimento globale e Israele non commetterà l’errore di non tenerne conto, operando col realismo che l’ha contraddistinta sinora.
Chi ne farà le spese sarà proprio il Vaticano (e la credibilità di Bergoglio, scricchiolante di suo), sia perché i suoi interessi in Terra Santa sono ampi e dai delicati equilibri che non possono prescindere dai buoni rapporti col governo di Gerusalemme, sia perché Bergoglio appare ed è genuflesso agli scopi politici della Casa Bianca e del suo provvisorio occupante, la cui sensibilità verso i punti cruciali della morale cattolica è nota.
Comunque vada è la Chiesa e le cerchie petrol finanziarie vengono fuori molto male da questa storia sempre più scura, con la responsabilità caotica e incontrovertibile di Bergoglio.

A giugno 2014 Bergoglio promosse l’incontro del presidente israeliano, Shimon Peres con quello palestinese, Abu Mazen, alla presenza di Bartolomeo, patriarca di Costantinopoli, per una comune preghiera per la pace in Medio Oriente nel giorno di Pentecoste. Mentre i negoziati israelo-palestinesi stagnavano, Bergoglio dichiarò di puntare sulla forza della preghiera per affratellare le fedi e rilanciare il processo di pace. L’incontro avvenne nei Giardini Vaticani, all’aperto, un luogo politicamente neutro.

Tutto sarebbe andato come doveva se non si fossero verificati due fatti interconnessi. Dopo neppure dieci giorni dalla preghiera in Vaticano Hamas rapì e, dopo tre settimane, sgozzò tre ragazzi israeliani, poco più che adolescenti:  Eyal Yifrah, Gil-Ad Shayer e Naftali Yaakov Frenkel.

Alle ritorsioni di Israele contro le basi di Hamas, seguirono ripetuti lanci di missili contro le città israeliane, con le consuete condanne da parte dell’Onu, della Francia e degli Usa. condanne contro Hamas? Contro Israele. Come reagì il Vaticano? Riconoscendo di lì a poco lo Stato di Palestina.

In quella temperie il prezzo del barile da 50 dollari salì a 60 per poche settimane, per poi ridiscendere. Goldman&Sachs, la banca di riferimento del Vaticano, da quando Bergoglio è al potere, aveva fatto sforzi inutili per scatenare una crisi.

Ogni tanto ci riprovano, oggi come ieri, come l’altro ieri e forse ancora domani, finché troveranno imbecilli diposti a dare loro credito.

 

 

[1] Vilâyet, Sangiaccato: sono le due circoscrizioni amministrative dell’Impero ottomano, in ordine di importanza, che precedono la Cazà.

[2] A favore votarono 33 nazioni: Australia, Belgio, Bolivia, Brasile, Bielorussia, Canada, Costa Rica, Cecoslovacchia, Danimarca, Repubblica Domenicana, Ecuador, Francia, Guatemala, Haiti, Islanda, Liberia, Lussemburgo, Olanda, Nuova Zelanda, Nicaragua, Norvegia, Panama, Paraguay, Perù, Filippine, Polonia, Svezia, Sud Africa, Ucraina, Usa, Urss, Uruguay, Venezuela); contro 13 (Afghanistan, Cuba, Egitto, Grecia, India, Iran, Iraq, Libano, Pakistan, Arabia Saudita, Siria, Turchia, Yemen); vi furono 10 astenuti (Argentina, Cile, Cina, Colombia, El Salvador, Etiopia, Honduras, Messico, Regno Unito, Jugoslavia. Assente la Thailandia.

[3] Nostra intervista

[4] Ebreo fra i meno noti ma più influenti, (Chicago, 30 gennaio 1909 – Carmel, 12 giugno 1972), attivista politico, autore di Rules for Radicals, la Bibbia del mondo anticattolico e delle politiche LGBT contro la famiglia. Le cerchie di Clinton e Obama vi si ispirano da sempre.

[5] Film del 2004 scritto e diretto da Mel Gibson, interamente girato in Italia. Uscì nelle sale degli USA il 25 febbraio 2004 (Mercoledì delle Ceneri) col divieto ai minori di 17 anni non accompagnati da un adulto. In Italia uscì il 7 aprile 2004 (Mercoledì Santo) senza alcuna censura.

[6] Autore della lettera agli ebrei “Nostra Aetate” di cui a ottobre del 2015 è ricorso il cinquantenario

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Informazioni su Piero Laporta

Dal 1994, osservate le ambiguità del giornalismo italiano (nel frattempo degenerate) Piero Laporta s’è immerso nella pubblicistica senza confinarsi nei temi militari, come d'altronde sarebbe stato naturale considerando il lavoro svolto a quel tempo, (Ufficio Politica Militare dello Stato Maggiore della Difesa). Ha collaborato con numerosi giornali e riviste, italiani e non (Libero, Il Tempo, Il Giornale, Limes, World Security Network, ItaliaOggi, Corriere delle Comunicazioni, Arbiter, Il Mondo e La Verità). Ha scritto “in Salita, vita di un imprenditore meridionale” ed è coautore di “Mass Media e Fango” con Vincenzo Mastronardi, ed. Leonardo 2015. (leggi qui: goo.gl/CBNYKg). Il libro "Raffiche di Bugie a Via Fani, Stato e BR Sparano su Moro" ed. Amazon 2023 https://shorturl.at/ciK07 è l'inchiesta più approfondita e documentata sinora pubblicata sui fatti del 16 Marzo 1978. Oggi, definitivamente disgustato della codardia e della faziosità disinformante di tv e carta stampata, ha deciso di collaborare solo con Stilum Curiae, il blog di Marco Tosatti. D'altronde il suo più spiccato interesse era e resta la comunicazione sul web, cioè il presente e il futuro della libertà di espressione. Ha fondato il sito https://pierolaporta.it per il blog OltreLaNotizia. Lingue conosciute: dialetto di Latiano (BR) quasi dimenticato,, scarsa conoscenza del dialetto di Putignano (BA), buona conoscenza del palermitano, ottima conoscenza del vernacolo di San Giovanni Rotondo, inglese e un po' di italiano. È cattolico; non apprezza Bergoglio e neppure quanti lo odiano, sposatissimo, ha due figli.
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8 risposte a Palestina, un espediente per chi specula

  1. Alberto Campese scrive:

    Impeccabile la tua ricostruzione storiografica e geo-politica, Piero. Complimenti. Auspicio condiviso – penso – che una risoluzione equa per tutti giunga al più presto, anche se il recente sostegno di Trump alla politica d’insediamento nei territori palestinesi del delinquente comune Netanyahu – ricorso all’immunità parlamentare dopo l’incriminazione della Corte Suprema per corruzione, frode e abuso d’ufficio – e al progetto di appropriazione dell’intera Gerusalemme da parte israeliana, ogni forma di ottimismo risulta inadeguata.
    Unica riserva non per il merito ma per il metodo. Se nelle premesse storiche non facciamo unicamente riferimento alla situazione geo-politica del novembre 1947, cioè al Piano di partizione della Palestina elaborato dall’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) e approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a New York (Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale), rischiamo di smarrire – ribadisco, nel metodo – il senso stesso di pacificazione e riconoscimento reciproco.
    Col metodo medesimo avrebbero agio “troppo facile” – ad esempio – i sedicenti «neo-borbonici» nel contestare le atrocità (che pure ci sono state) e le “forzature” che portarono alla proclamazione del Regno d’Italia con l’atto formale del 17 marzo 1861, con il quale si sancì la nascita della nazione unificata. Finanche la Liga Veneta e la Lega Lombarda strumentalizzerebbero il metodo per promuovere e realizzare la loro ulteriore autonomia o alimentare l’ideale separatista. Nel merito sarebbe peraltro interessante “verificare” cosa hanno in comune un cittadino di Bergamo e un altro di Reggio Calabria… Ma questa è un’altra storia… Meglio non indagare più di tanto.

    • Piero Laporta scrive:

      Grazie, Alberto. Non sono partito solo dalla situazione geo-politica del novembre 1947 perché vi sono infinite rivendicazioni che s’aggrappano agli antefatti, manipolati da numerose parti, come d’altronde ho scritto in premessa. Di certo nessuno – ebreo, musulmano, cattolico, africano, caucasico, pellerossa o a qualunque gruppo appartenga – può presentare alla storia una cambiale da riscuotere. Questo vale anche per i neoborboni e per i neopadani, ovvio. Pur tuttavia incombe un ulteriore dato da tenere sempre in conto: la cambiale non è riscuotibile, a meno che non vi sia la forza militare per incassarla, ragion per cui la pace è più o meno fragile, di certo mai definitiva, un po’ dappertutto.

  2. Renzo Romano scrive:

    analisi chiarissima, complimenti!Penso che, dal momento che, spesso, i Popoli sono una cosa e gli Stati altro, sia oramai giunto il tempo di riconoscere ai due Popoli il diritto di vivere come Stato nella terra dove vivono, dove tanto sangue è stato versato e dove l’odio e la connessa paura sono purtroppo divenuto i sentimenti dominanti. Uno Stato palestinese avrebbe i diritti e gli obblighi internazionali di ogni Stato, e se dovesse aggredire Israele ne subirebbe le conseguenze. E che tutti gli altri tacciano!

    • Piero Laporta scrive:

      Grazie. Non sarà tuttavia possibile arrivare a una soluzione finché i “palestinesi”saranno usati come una clava da quanti, attraverso la tensione, ricavano sotto varie forme (petrolio, armi, peso politico…)

  3. oscar scrive:

    Bravo Piero! E’ tempo che si comprenda ad ogni livello che :”non si può tornare indietro”.
    La storia ci aiuta a comprendere, ma non sempre torna utile per risolvere i problemi. Non si esce dalla necessità di riconoscere due stati sovrani nell’area in questione. quello che verrà dopo si vedrà. l’importante e che il riconoscimento sia reciproco e non vessatorio per una delle due parti.

  4. Carlo Gambescia scrive:

    Complimenti. Eccellente analisi!

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