Dalla Chiesa e La Torre, non basta commemorare

DALLA CHIESA LA TORREPio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa e la trattativa Stato-Mafia per Comiso, ordinata da Cossiga, capo del Governo  [scritto 5 anni fa, ancora attuale per capire Capaci]

Giorgio Napolitano apparve più che altro preoccupato della trattativa degli anni ’90 tra Stato e Mafia. Non di meno quella non fu la prima né la più importante, visto quanto intercorse fra Stato e Mafia per schierare gli euromissili a Comiso. La trattativa su Comiso è a sua volta collegata all’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa. D’accordo, la storia non si fa con i se e con i ma, d’altronde è per questo che si uccide.
Molte verità sono in due archivi: quello dei servizi segreti a Forte Braschi e quello dei Carabinieri. Qualcosa sarebbe dovuto esserci anche al Quirinale, lasciato da Cossiga, ma… La traccia qui svelata sarebbe inesorabilmente divenuta evidente agli occhi dei martiri Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo stesso filo passò nel telaio infetto di Vito Ciancimino, il cui figlio tuttavia sembra non sapere nulla, finora. Andiamo con ordine, facendo attenzione alle date.

Prima del martirio di Pio La Torre

Trent’anni fa, primavera del 1982, s’acuì lo scontro tra pacifisti e Partito Comunista Italiano (Pci), i primi contrari allo schieramento degli euromissili a Comiso, il Pci favorevole ma con pesanti ambiguità. L’anima del movimento pacifista antimissili fu Pio La Torre, a dispetto della sua qualità di carismatico dirigente del Pci. Il Pci tuttavia non condivise il fervore di La Torre, visto che il partito dette via libera ai missili a primavera 1980, quando il Parlamento approvò la “doppia decisione” della NATO.
Chiara Valentini, biografa di Enrico Berlinguer, dichiarò più tardi che Pio La Torre nell’ultimo periodo era in crisi con la destra del Pci: ebbe divergenze con Napolitano che tendeva a rassicurare l’Occidente sulla politica estera del Pci e non s’intese più nemmeno con Paolo Bufalini (mentore politico di La Torre della prima ora) che di lui disse: «Prendiamo con prudenza le parole di Pio perché è uno che è abituato a esagerare un po’, dalla mafia è ormai ossessionato».
La “doppia decisione” fu resa pubblica a luglio 1980. Il governo italiano dette a intendere di schierare i missili in Veneto. Fu una manovra diversiva di Francesco Cossiga; gli americani avevano già deciso per la Sicilia, a Comiso, in provincia di Ragusa, sulla costa meridionale dell’isola. La “doppia decisione” della Nato poneva Mosca davanti a due alternative: smantellare tutti i propri missili a breve e medio raggio; oppure, se il Patto di Varsavia non avesse accettato, l’Alleanza avrebbe schierato gli euromissili.

Il denaro suggella gli accordi

I giganteschi lavori cominciarono. Lo sgangherato e vecchio aeroporto Magliocco di Comiso diventò base per i sofisticati missili statunitensi e le relative tecnologie. Si resero necessari, anzi indispensabili, considerevoli lavori stradali, affinché fosse possibile ridislocare senza limiti logistici gli autocarri coi missili, portandoli sulle basi di lancio, sparse per tutta l’Isola.
Agli inizi degli anni ’80 piovvero migliaia di miliardi di lire, tra finanziamenti nazionali e statunitensi. L’ammontare definitivo è incalcolabile; un “diluvio di denaro”. Gli appalti per la base furono conferiti direttamente dalle autorità statunitensi col benestare della loro Intelligence.
Chiunque abbia avuto parte in questa vicenda, traendone vantaggio economico o di posizione, sotto qualunque forma, deve averlo negoziato cogli Stati Uniti d’America. Questo valse anche per il Pci che ai missili dette il proprio consenso. È  appena il caso di ricordare che la trattativa si impose anche con la mafia, come vedremo. 
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Il punto unificante del consenso tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, al di là delle convergenze atlantiche più o meno dichiarate, il collante inconfessato non poté che essere il denaro.
D’altronde la composizione del consenso fra Pci e Dc doveva passare e passò, come s’è detto, attraverso l’indispensabile consenso della mafia, la cui sensibilità per il denaro è incontrovertibile e dirimente.
La convergenza fra Pci e Dc non potè quindi passare che attraverso il medesimo denaro cui era interessata la mafia.

La politica e gli Euromissili

Il dibattito sugli Euromissili fu acceso dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt, a primavera del 1977. Meno d’un anno dopo Giorgio Napolitano guidò la delegazione del Pci a Washington – 4 al 19 aprile del 1978 – per garantire l’affidabilità atlantica del Pci. Erano i primi giorni di prigionia del presidente Aldo Moro, rapito per essere ucciso per mano delle Brigate Rosse.
Il tentativo della Democrazia Cristiana di far negare il visto da Washington alla delegazione del Pci fu un clamoroso fallimento. L’ambasciata statunitense a Roma, d’intesa col dipartimento di Stato, garantì il visto. Essa individuò evidentemente un preciso tornaconto per scontentare la Dc, apparentemente il partito più vicino agli Usa in quel momento. Era ancora davvero così vicina? Lo era anche dopo la dichiarazione di affidabilità atlantica del Pci, di due anni prima?
Quattro giorni prima delle elezioni politiche di giugno 1976, Enrico Berlinguer rilasciò un’importante intervista a Giampaolo Pansa del Corriere della Sera. «No, siamo in un’altra area del mondo» rispose a Pansa che domandava se Mosca gli avrebbe fatto fare la stessa fine di Alexander Dubcek [il leader della Primavera di Praga, NdR].
«Insomma – insistette Pansa – il Patto atlantico può anche essere uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà?»
Berlinguer diede una risposta inaspettata:«Io voglio che l’Italia non esca dal Patto atlantico anche per questo e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua, sotto l’ombrello della NATO, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi di limitare la nostra autonomia». Queste parole stravolsero il quadro politico, italiano e NATO.
Un tale passo non poté essere compiuto senza una preventiva azione esplorativa circa il favore che avrebbe incontrato negli Stati Uniti. In caso contrario, l’intervista di Enrico Berlinguer a Giampaolo Pansa sarebbe stato un inutile atto temerario, in conseguenza del quale il segretario generale del Pci sarebbe potuto rimanere in mezzo al guado se la risposta di Washington fosse stata tiepida, ufficialmente o ufficiosamente. È logico pertanto presumere che la linea Berlinguer avesse sostegni ben concordati a Washington e forse non solo lì.
La riflessione e le caute esplorazioni iniziarono dopo il fallito attentato a Sofia nel 1973, o prima?

L’attentato a Berlinguer

Il 3 ottobre 1973 Berlinguer tenne una veloce visita a Sofia. Nella capitale bulgara incontrò i vertici del partito comunista e quella stessa sera stava tornando in Italia. Sulla strada per l’aeroporto, nella coda del traffico, un camion militare carico di pietre, proveniente dalla corsia opposta, si staccò dalle altre auto e colpì violentemente la vettura su cui viaggiava Berlinguer.
Il segretario del Pci si salvò miracolosamente; l’interprete morì e gli altri due funzionari erano in condizioni critiche. Berlinguer decise di tornare subito a Roma e non passare la notte in ospedale come gli fu proposto.
L’attentato fu tenuto accuratamente nascosto dal 1973 al 1991. Neppure la morte di Berlinguer, nel 1984, indusse a sciogliere il segreto.
Un segreto così ben custodito ebbe e tuttora ha un significato univoco: quello di custodire un ulteriore segreto, ben più solido e inconfessabile più dello stesso attentato. Quale? Dopo tanti anni non c’è che un segreto possibile, l’accordo con gli Usa certamente prima del 1976, anzi ancor prima del 3 ottobre 1973, quando il tentativo di ucciderlo è segno che Berlinguer ha tradito i suoi compagni del Patto di Varsavia.

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Se il presidente Aldo Moro non fosse stato rapito per essere ucciso, i missili sarebbero stati schierati a Comiso o a Gioia del Colle? Se Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avessero potuto, avrebbero indagato su Dalla Chiesa, La Torre e la trattativa Stato-Mafia? La storia non si fa con i se e con i ma, è vero: dopo tutto è per questo che si uccide.

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Solo il tradimento politico e operativo poteva giustificare l’attentato. Solo se il leader del Pci avesse mutato gli equilibri di alleanza politica e militare con Mosca – e non per semplici teorizzazioni politiche, peraltro comuni a quel tempo in molti partiti comunisti in Europa occidentale e orientale – solo un tale tradimento avrebbe giustificato la sua condanna a morte.
Pietro Secchia, il più pericoloso e occhiuto controllore di Berlinguer per conto di Mosca, morì a luglio del 1973. In quei mesi quindi si creò una situazione favorevole per uno strappo operativo con Mosca, un tradimento vero e proprio dell’alleanza con Mosca da parte di Berlinguer, tale da giustificare l’attentato del successivo 3 ottobre, con una severità significativa.
In precedenza si era manifestata una analoga condanna contro Imre Nagy, presidente del governo ungherese che si era ribellato a Mosca nel 1956. Invece ciò non avvenne con Alexander Dubček, leader della Primavera di Praga nel 1968, il quale mise in discussione l’equilibrio Est-Ovest. Cinque anni dopo, Mosca, attraverso Sofia, tentò  invece di uccidere Enrico Berlinguer, il quale apparentemente non aveva fatto nulla di neppure comparabile a quanto imputato a Dubček. Quale fu il tradimento di Berlinguer, tale da indurre Mosca di decidere di ucciderlo nel 1973?
Emanuele Macaluso fu depositario di tale pesantissimo segreto sino al 1991 quando lo svelò in un’intervista.
Mentre il presidente Aldo Moro era prigioniero per essere ucciso e Giorgio Napolitano era negli Stati Uniti, inviatovi da Berlinguer, a fare non si sa che cosa, Emanuele Macaluso partecipò a un convegno a Roma; tema:”Chi sono i padri delle Brigate Rosse?”. Sarebbe stato, quel convegno, un’eccellente occasione per ricordare l’attentato a Berlinguer. Macaluso non se ne ricordò.
Emanuele Macaluso non se ne ricordò neppure quando fu direttore de l’Unità, tre anni dopo, ai tempi dell’attentato a Giovanni Paolo II, quando Alì Agca accusò i bulgari, a maggio 1982.
Emanuele Macaluso non poteva sapere che il turco poi avrebbe smentito. Eppure l’Unità attaccò la pista bulgara, mentre Emanuele Macaluso dimenticava ancora una volta l’attentato a Sofia del 1973. È lo stesso giornale, l’Unità, che in quella primavera del 1982 non s’accorge dell’isolamento pericoloso verso il quale scivola il povero Pio La Torre.

Il dibattito parlamentare sulla “doppia decisione”  della NATO si svolse a giochi fatti da tempo, che piacesse o meno all’ala moscovita del Pci, che fosse gradito o meno al fastidioso Pio La Torre.
«No. Siamo in un’altra area del mondo» Berlinguer aveva risposto a Pansa, sei anni prima, quando erano passati tre anni dall’attentato di Sofia. Il giornalista gli aveva chiesto se Mosca gli avrebbe fatto fare la stessa fine di Alexander Dubcek. «No» rispose, ma come faceva a esserne così sicuro?
Era stato raggiunto un altro equilibrio tra Washington e Mosca, nel quale il Pci aveva una differente collocazione rispetto al partito di Palmiro Togliatti.

La contropartita

La base di Comiso fu un enorme affare in forniture militari ma anche una cuccagna di appalti e di traffici d’ogni genere. Claudio Fava scrisse anni dopo: “Tutto questo, naturalmente, non è passato su Comiso e dintorni senza lasciare traccia: anzi; si è probabilmente avverata nel corso degli ultimi tre anni la “profezia” di Pio La Torre, il deputato comunista ucciso dalla mafia: «…Si vedrà presto a Comiso lo scatenarsi della più selvaggia speculazione, dal traffico di droga al mercato nero, alla prostituzione, con il degrado più triste della nostra cultura e della nostra tradizione»”.
Relazione di minoranza (fra cui il Pci) della Commissione antimafia nel 1984: «(la base NATO di Comiso) rappresenta un elemento che accelera in modo impressionante i processi di degenerazione e di inquinamento della vita sociale e politica».
Tutto vero e anche tutto prevedibile: sia mentre il Pci approvava la “doppia decisione della NATO”, sia quando, pochi mesi dopo, l’irriducibile Pio La Torre ricoprì la carica di segretario del Pci siciliano.
Non di meno la guerra per posizionarsi opportunamente per affondare le mani nelle montagne di miliardi era avviata da tempo, coinvolgendo molte parti. Riguardò la politica, la mafia e l’imprenditoria e quanti nelle rispettive organizzazioni avevano i contatti giusti in Italia e negli Usa. Riguardò anche i servizi europei e statunitensi, senza escludere quelli sovietici. Quando le cifre sono da capogiro ogni accordo è possibile, ogni corruzione è probabile, ogni tradimento è giocabile. Rimaniamo tuttavia in Sicilia.
Nell’isola la nuova contiguità fra il Pci e Washington incontra un problema che esige una soluzione strategica. La mafia al potere in quel momento derivava da quella che nel Dopoguerra era stata legittimata dopo l’invasione dell’Isola da parte degli Alleati. Attraverso vicissitudini che qui è inutile approfondire, il vertice mafioso alla fine degli anni ’70 era nel sistema di potere della Democrazia Cristiana, ma non del PCI. Occorreva una ristrutturazione del potere mafioso che tenesse conto dei nuovi equilibri atlantici.

I Corleonesi vincono la guerra di mafia

Mentre l’Italia s’interrogava sul “compromesso storico”, una guerra senza quartiere contrappose la vecchia mafia, al potere dal Dopoguerra, ai rampanti Corleonesi, guidati prima da Luciano Liggio e, dopo la morte di questi, da Totò Riina. Una guerra di mafia c’era già stata agli inizi degli anni ’60 ed era stata sanguinosa, ma nulla al confronto della successiva, i cui primi colpi furono sparati esattamente nel 1977, mentre Schmidt parlava di euromissili.
La politica annunciava gli euromissili, il Pci aasorbiva la nuova strategia atlantica e – singolare coincidenza – i Corleonesi conquistarono di pari passo il potere di vertice mafioso e, con esso, la capacità di affondare le mani negli affari lucrosi in vista.
Da quel momento i Corleonesi godettero di un’impunità ventennale, ottenibile solo con protezioni ad altissimo livello politico; protezioni dispiegabili solo da un’entità che fosse allo stesso tempo sovraordinata alle autorità italiane e alla stessa mafia. Questa autorità doveva necessariamente risiedere negli Stati Uniti proprio dove il progetto euromissili aveva già una sua fisionomia precisa.
20 Agosto 1977. Salvatore Riina, astro nascente dei Corleonesi, uccise il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo. Questi non era un colonnello qualsiasi, bensì il sensore avanzato di Carlo Alberto Dalla Chiesa verso Giuseppe Di Cristina, boss di punta nella Commissione di Cosa Nostra, inutilmente contraria alle efferatezze di Riina e uomo legato alla DC.
La Commissione di Cosa Nostra non fu d’alcun aiuto a Di Cristina, assassinato il 30 maggio 1978.
Quindici giorni prima Di Cristina svelò ai carabinieri che Luciano Liggio, boss dei Corleonesi, voleva assassinare il giudice Cesare Terranova, da poco rientrato nella magistratura palermitana dopo una parentesi parlamentare. Egli rivelò pure che Liggio uccise Pietro Scaglione, procuratore capo di Palermo. Di Cristina concluse che i Corleonesi stavano dando la scalata alla mafia.
Cesare Terranova fu ucciso, i verbali dei Carabinieri rimasero nei cassetti della magistratura e nell’archivio centrale dell’Arma. Non sarebbe tuttavia bastata la magistratura a coprire i Corleonesi.
Fino alla fine degli anni ‘90 la tesi “non esiste una sola mafia” fu cavallo di battaglia dell’Fbi; così volle il suo fondatore Edgard Hoover. Questi costituì un potere parallelo nell’amministrazione americana, occulto e acostituzionale, perfettamente dimensionato per entrare in relazione cogli analoghi poteri sparsi per il mondo. Quel potere fu irradiato in tutti i paesi vassalli degli Usa. Fbi e mafia viaggiarono sullo stesso treno anche se in carrozze differenti, almeno sin dai tempi del duplice assassinio dei fratelli Kennedy.
Le cose cambieranno quando la mafia corleonese diverrà superflua, dopo la fine della Guerra Fredda; fino ad allora tuttavia i traffici di droga fra Sicilia e Stati Uniti corsero indisturbati. Quando condussero a qualche arresto eccellente, come Gaetano Badalamenti, si trattò d’avversari dei Corleonesi. I sequestri dei beni in conseguenza della legge La Torre? Fino alla fine della Guerra Fredda colpirono solo la mafia perdente; e anche dopo a ben vedere. Tutti gli investigatori e i magistrati italiani, frappostisi ai traffici in Sicilia e fra la Sicilia e gli Stati Uniti, furono massacrati impunemente.
Ricordiamo solo alcuni martiri d’una lunghissima lista.
Gennaio 1979: la mafia uccise Boris Giuliano il capo della squadra mobile di Palermo. Settembre: è la volta del procuratore della Repubblica Cesare Terranova.
6 Gennaio 1980: omicidio del presidente della regione Sicilia, Piersanti Mattarella.
4 Maggio: omicidio del valoroso capitano Emanuele Basile, comandante la compagnia carabinieri di Monreale, legatissimo a Paolo Borsellino.
6 Agosto: assassinio del procuratore capo della repubblica di Palermo, Gaetano Costa.
13 Giugno 1983: uccisione del valoroso capitano Mario D’Aleo, successore di Emanuele Basile. Tre mesi prima, il 13 marzo, furono assolti gli assassini di Emanuele Basile.
Nel 1988, il 25 settembre, fu la volta del Presidente di Corte di Appello Antonino Saetta, il quale, condannando i mafiosi prima assolti per la morte di Basile, squarciò un velo, immediatamente ricucito, tuttavia.
4 aprile 1992. Uccidono l’indimenticato maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, validissimo collaboratore di Paolo Borsellino. È l’omicidio che prepara Capaci e via D’Amelio.

La strategia militare si adatta ai nuovi equilibri

Incuranti di deludere quanti certificano una mafia debole quando uccide, i Corleonesi sparsero fiumi di sangue mentre le autorità politiche portavano avanti la scelta di Comiso. Questa singolare coincidenza, che coincidenza non è, accompagna una scelta militare assurda in apparenza proprio sotto il profilo militare, in realtà graditissima alla cupola mafiosa e non solo a essa per il volume di affari che consentiva.
Nel 1961, i missili furono schierati a Gioia del Colle, 40 chilometri a Sud di Bari.
Comiso era 500 chilometri indietro di quanto fosse Gioia del Colle rispetto all’Unione Sovietica.
Era dunque una scelta militarmente senza senso: un’arma strategica non rinuncia a una fascia di 500 chilometri, dov’è accertata la presenza di centinaia d’obiettivi remunerativi, compresa Mosca, la capitale.
Gioia del Colle era una base attrezzata; Comiso invece dovettero costruirla da zero: piste, strade, case, hangar, magazzini, impianti… un fiume di miliardi.
Per giustificare il non senso, lasciarono intendere che lo schieramento a Comiso fosse orientato anche a battere gli obiettivi libici. È falso: da Gioia del Colle avrebbero potuto colpire ben oltre l’Africa settentrionale, fino a quella centrale.
La menzogna fu bevuta anche da Pio La Torre e Chiara Valentini che però non potevano saper nulla di questioni tecniche militari.
Ne chiesi ragione per iscritto a Giulio Andreotti e a Lelio Lagorio. Il primo non rispose, il secondo mi rimandò al suo libro “L’Ora di Austerlitz”, sul quale tuttavia non trovai risposte. Mi sono rivolto quindi a tre tecnici alquanto autorevoli.
«La collocazione a Comiso fu giudicata la migliore possibile dal comando Alleato» ricorda Luigi Caligaris, a quel tempo capo ufficio politica militare della Difesa.
«Cossiga – precisa Caligaris – fu artefice della buona riuscita della complessa trattativa, politica e militare, iniziata nel 1977, che vide l’Italia in prima linea per schierare gli euromissili».
Sulla centralità del ruolo di Cossiga e sulla preferenza statunitense per Comiso, concorda anche il generale Mario Arpino, allora capo ufficio operazioni dell’Aeronautica militare, in seguito diventerà capo di stato maggiore della Difesa.
Carlo Jean, generale degli alpini e ascoltatissimo consigliere di Cossiga, aggiunge: «Oltre a Cossiga, al successo concorsero Bettino Craxi e Lelio Lagorio, rimediando ai tentennamenti democristiani. Craxi unì l’utile al dilettevole, poiché gli euromissili incrinavano l’unità del Pci».
Ricordo ai miei interlocutori che la dislocazione della base appare alquanto singolare, marcando un arretramento di 500 chilometri. I Pershing2 perdevano oltre un terzo della gittata, pari a 1480 chilometri, un assurdo apparente.

Trattativa Stato-Mafia fra il 4 agosto 1979 e il 4 aprile 1980

La gittata fu un dato politicamente secondario, spiega il generale Arpino: «Comiso fu una scelta americana, dettata da due ragioni: la disponibilità di ampio retroterra su cui muovere gli autocarri che trasportavano i missili dalla base ai siti di lancio e, inoltre, le trasformazioni intervenute nella base aerea di Gioia del Colle dopo il 1962, tali da renderla impraticabile nel 1980».
La necessità d’ampio retroterra per la base era connessa alle operazioni di lancio che non avvenivano da Comiso, altrimenti un solo missile sovietico sarebbe stato in grado di distruggere tutti i missili nucleari statunitensi in Sicilia. Al momento dell’allarme nucleare, gli enormi autocarri coi lanciatori a bordo, sarebbero usciti dalla base di Comiso per portarsi su differenti zone di lancio, opportunamente distanti l’una dall’altra e tutte discolate sulla Sicilia.
Aggiunge Caligaris:«Gli euromissili ebbero una tale dimensione politica che ogni altro elemento divenne secondario: essenziale fu dimostrare la capacità di schierarli». La “capacità” avrebbe potuto trovare un limite nella sicurezza del territorio siciliano. Nulla infatti doveva opporsi alla circolazione in piena sicurezza degli autocarri coi missili, mentre si dislocavano sui siti di lancio, distanti da Comiso, ma sempre in Sicilia.
Carlo Jean non ha dubbi: «La possibilità di schierare i missili fu garantita in Sicilia dal controllo della mafia sul territorio. Cossiga mandò l’ammiraglio Fulvio Martini a trattare». Mentre Cossiga era presidente del Consiglio dei ministri? «Sì»
Questo significò riconoscere la mafia come interlocutore? «Neanche per sogno. Trattare coi rapitori, per salvare gli ostaggi, non significa mica riconoscere i delinquenti. L’interesse dello Stato in quel momento esigeva che noi schierassimo i missili in Sicilia per determinare la fine della Guerra Fredda».
A distanza di tanti anni è difficile individuare i dettagli della trattativa, che tuttavia si concluse certamente con uno scambio: la mafia assicurò la disponibilità del retroterra di Comiso e ottenne qualcosa. Che cosa? L’immunità dei traffici è la contropartita più probabile, nonostante qualche “brillante operazione di polizia” di tanto in tanto, per salvare la faccia e gli accordi.
Difficile capire come Carlo Alberto Dalla Chiesa potesse coesistere con un tale contesto, arrivando a Palermo. Sarebbe interessante leggere nell’archivio del Pci quale fu il giudizio di Ugo Pecchioli che seguiva tutto quello che accadeva nei servizi segreti italiani.

La Sicilia territorio franco

Con chi entrò in contatto Martini? Certamente con un interlocutore accreditato dall’intelligence statunitense, presumibilmente la stessa che sovrintese agli esiti della precedente guerra di mafia.
Il collegamento con la mafia, così come ai tempi dello sbarco dell’VIII Armata in Sicilia, consentì un accordo al massimo livello, per lasciare le intese di dettaglio agli italiani, considerati dagli Stati Uniti, allora come oggi, alleati docili, dai quali non ci si attendono né interlocuzioni problematiche né richieste di chiarimenti imbarazzanti. Uno ordina, gli altri obbediscono. Bettino Craxi non lo comprese a Sigonella e si sa com’è finita. Il Pci invece lo aveva capito sin dal 1973.
Ci fu un prezzo? Sì, senza ombra di dubbio, come si è detto: la mafia non fa sconti, ma chi poteva garantire l’accordo politico con la mafia era necessariamente negli USA per almeno due motivi.
I padroni di casa a Comiso erano gli Stati Uniti. Inoltre, solo un’autorità forte al punto di ordinare “che cosa fare”, ad ambo le parti – lo Stato italiano e la mafia – avrebbe potuto garantire l’accordo e le immunità che ne discendevano per i mafiosi e i vantaggi per il contorno politico. La trattativa e l’immunità non potevano che essere sotto bandiera statunitense. D’altro canto la condizione di vassallaggio dell’Italia non dava e non dà tuttora alcuna garanzia di immunità ai boss, i quali dunque dovevano confidare su ben altro che il governo italiano, ridotto – com’è oggi più evidente – a ricettore ed esecutore di ordini da autorità esterne e lontane.
L’efficacia operativa di un tale accordo dovette necessariamente prevedere di stabilire in Sicilia un agente del SISMI per il collegamento con la mafia e con l’interfaccia statunitense. Da questa struttura di coordinamento può essere derivata quella che ha poi dato anima alla trattativa Stato mafia degli anni ’90.

Perché il martirio di Pio La Torre

Pio La Torre entrò nella segreteria del Pci, nominato dal XV Comitato centrale dell’11 Luglio 1979, annoverato tra i fedelissimi del segretario generale, Enrico Berlinguer. Il 6 Gennaio 1980 fu assassinato Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana. Il 1° Ottobre 1981 Pio La Torre è segretario regionale del Pci in Sicilia. Sarà assassinato alla vigilia del 1° maggio 1982.
Quando si afferma che Pio La Torre fu ucciso a causa della sua legge che consente il sequestro dei beni ai mafiosi si dicono due grottesche falsità. La mafia non uccide per stupide ragioni emotive come la vendetta, ma per concreti interessi. D’altronde, Virginio Rognoni, cofirmatario della stessa legge, non ebbe e non ha nulla da temere.
Il prefetto Cesare Mori, il “prefetto di ferro”, non fu ucciso durante il suo mandato né dopo quando fu inerme, senza scorta. La scorta è un’invenzione della generazione politica di Comiso.
Inoltre, se Pio La Torre fosse sopravvissuto, onesto e irriducibile com’era, mai avrebbe lasciato passare sotto silenzio i traffici sviluppatisi nella Sicilia, fra Sicilia e Usa, fra Sicilia e le imprese rosse dell’Emilia Romagna, intorno a Comiso, oltre al fiume di droga che passò indisturbato per l’isola e da lì verso ogni dove.
Possiamo anche aggiungere che fino agli anni ’90 i sequestri di droga colpirono la mafia perdente. Nel momento in cui la mafia era più forte che mai, si poteva presumere di proporre appalti per migliaia di miliardi in Sicilia senza un accordo con Cosa Nostra?
Il sì del Pci alla “doppia decisione” della Nato ebbe una lungimirante visione sugli appalti, gestibili fra le imprese siciliane e quelle romagnole.
I nemici di Pio La Torre erano quindi certamente nella mafia ma anche accanto a lui.

Perché Dalla Chiesa doveva morire

Il simmetrico di Pio La Torre sul versante delle forze dell’ordine è Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Neppure per Dalla Chiesa si può invocare il movente grottesco della vendetta, come da tempo si dà a intendere per disinformare. Pesarono piuttosto le intuizioni – in Pio La Torre frammentarie – di ben altra caratura e di ben altro esito con l’occhio del generale, esperto investigatore e conoscitore profondo dei legami nazionali e internazionali tra mafia, politica, affari e centrali statunitensi.
D’altro canto la stessa collocazione – apparentemente assurda – della base di Comiso non sarebbe potuta sfuggire a Dalla Chiesa. Egli prima di divenire carabiniere, fu ufficiale di artiglieria. Come per Pio La Torre, i nemici del generale non erano solo nella mafia. La sua auto fu sabotata almeno tre volte e di certo non la parcheggiava in strada.
Rimane solo il dubbio che lasciamo ad altri: Pio La Torre fu ucciso per attirare Carlo Alberto Dalla Chiesa in Sicilia? Oppure Dalla Chiesa fu ucciso perché era stato ucciso La Torre? Un ulteriore dettaglio nella vicenda di Dalla Chiesa va finalmente chiarito.
Chi scortava Dalla Chiesa? Chi era ostile al generale?
La stampa lo ha scritto più volte fin dagli anni ’90:  Antonio Di Pietro era nella scorta di Dalla Chiesa. Antonio Di Pietro non ha mai smentito.
Dalla Chiesa esigeva – finché non giunse a Palermo –  notoriamente una scorta di carabinieri. Sarebbe finalmente il momento di capire quanto a lungo, quando, come, perché e chi determinò che Di Pietro fosse in quella scorta.
Non è l’unico fatto curioso. Il martire Dalla Chiesa andò a bussare alla porta di Ciriaco De Mita, prima di partire per la Sicilia. Non gli fu aperto. Lo disse Rita Dalla Chiesa in una trasmissione televisiva e nessuno ancora le ha spiegato perché quella porta rimase chiusa, come tutte le altre porte delle istituzioni e dei partiti, tutti, Pci compreso.

La verità, sebbene uccisa, viene a galla

Come s’è detto all’inizio, molte risposte ai quesiti che s’affastellano sono in due archivi: quello dei servizi e quello dei carabinieri. In verità, vi sarebbe stato un terzo mucchio di documenti, al Quirinale, lasciato da Cossiga. Chissà se ne è rimasto qualcosa dopo il passaggio di Napolitano.
Il globalismo finanziario ed economico che conosciamo oggi, fu ben prima una realtà nel mondo della malavita organizzata, del malaffare politico e delle relazioni sotterranee fra servizi, anche quelli di schieramenti opposti. La mafia fu solo uno dei tasselli, neppure il più importante. Dopo la fine della Guerra Fredda la mafia divenne superflua e Totò Riina non se ne rese conto.
Le poltrone istituzionali furono in larga misura occupate, molte lo sono tuttora, da politici indegni, oggi lo comprendiamo meglio.
La radice di questo male è in Sicilia, una regione che più d’ogni altra patisce tutt’ora una classe dirigente infima e del tutto indegna dei suoi governati. In Sicilia come nel resto d’Italia questa contraddizione – tra indegnità dei governanti e dignità dei governati – è l’esito d’un potere non istituzionale, preconfezionato all’estero, tanto ieri per Comiso come oggi per l’economia. È un vassallaggio che prima ci tolse la dignità e l’onestà, oggi ci toglie pure i soldi coi quali ci corruppero.
È una storia non ancora del tutto scritta e quando ci si è avvicinati ad essa, quando per esempio gli avvocati di parte civile nel processo di Pio La Torre cercarono di scavare, furono fermati – non dalla mafia – da taluni magistrati e dal Pci. E si lasciarono fermare.
È quindi giunto il momento di fare un passo inevitabile per riprenderci una dignità nazionale alquanto compromessa. Evitiamo cerimonie commemorative e vane parole se prima non apriamo gli archivi, soprattutto i loro cassetti più lerci.
Due domande ancora. Se il presidente Aldo Moro non fosse stato rapito per essere ucciso, i missili sarebbero stati schierati a Comiso o a Gioia del Colle? Se Giovanni Falcone e Paolo Borsellino  avessero potuto, avrebbero indagato su Dalla Chiesa, La Torre e la trattativa Stato-Mafia? la storia non si fa con i se e con i ma, è vero, dopo tutto è per questo che si uccide.

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Informazioni su Piero Laporta

Dal 1994, osservate le ambiguità del giornalismo italiano (nel frattempo degenerate) Piero Laporta s’è immerso nella pubblicistica senza confinarsi nei temi militari, come d'altronde sarebbe stato naturale considerando il lavoro svolto a quel tempo, (Ufficio Politica Militare dello Stato Maggiore della Difesa). Ha collaborato con numerosi giornali e riviste, italiani e non (Libero, Il Tempo, Il Giornale, Limes, World Security Network, ItaliaOggi, Corriere delle Comunicazioni, Arbiter, Il Mondo e La Verità). Ha scritto “in Salita, vita di un imprenditore meridionale” ed è coautore di “Mass Media e Fango” con Vincenzo Mastronardi, ed. Leonardo 2015. (leggi qui: goo.gl/CBNYKg). Il libro "Raffiche di Bugie a Via Fani, Stato e BR Sparano su Moro" ed. Amazon 2023 https://shorturl.at/ciK07 è l'inchiesta più approfondita e documentata sinora pubblicata sui fatti del 16 Marzo 1978. Oggi, definitivamente disgustato della codardia e della faziosità disinformante di tv e carta stampata, ha deciso di collaborare solo con Stilum Curiae, il blog di Marco Tosatti. D'altronde il suo più spiccato interesse era e resta la comunicazione sul web, cioè il presente e il futuro della libertà di espressione. Ha fondato il sito https://pierolaporta.it per il blog OltreLaNotizia. Lingue conosciute: dialetto di Latiano (BR) quasi dimenticato,, scarsa conoscenza del dialetto di Putignano (BA), buona conoscenza del palermitano, ottima conoscenza del vernacolo di San Giovanni Rotondo, inglese e un po' di italiano. È cattolico; non apprezza Bergoglio e neppure quanti lo odiano, sposatissimo, ha due figli.
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20 risposte a Dalla Chiesa e La Torre, non basta commemorare

  1. carlo scrive:

    Mameli è ufficialmente inno nazionale. Il Gran Maestro: “Ora ci sentiamo ancor di più Fratelli d’Italia”
    https://www.grandeoriente.it/mameli-ufficialmente-inno-nazionale-gran-maestro-ora-ci-sentiamo-ancor-piu-fratelli-ditalia/
    “Ora ci sentiamo ancor di più Fratelli d’Italia e canteremo l’inno orgogliosamente, come abbiamo sempre fatto, durante le nostre tornate rituali e le manifestazioni pubbliche”. Il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, Stefano Bisi, plaude con soddisfazione alla notizia che dopo 71 anni di provvisorietà finalmente il Canto degli Italiani, meglio conosciuto come Inno di Mameli, sia adesso a tutti gli effetti l’inno ufficiale della Repubblica Italiana. “Per noi, “Fratelli d’Italia”, al di là delle questioni burocratiche, e’ stato sempre l’inno che abbiamo portato impresso nel cuore e nella mente, perché in esso c’è la storia d’Italia e del Risorgimento che sfociò nell’Unita’. Scritto dal massone Goffredo Mameli e musicato dal fratello Michele Novaro, esso fa vibrare da sempre l’animo dei liberi muratori e dei cittadini italiani. In un periodo oscuro della nostra Nazione, in cui si tende a dimenticare il passato e qualcuno vuol mettere in discussione pure la Storia, e i principi di libertà della Libera Muratoria, quello dell’approvazione definitiva del Canto degli Italiani è un atto dall’alto contenuto e valore simbolico. Bisognerebbe farlo cantare effettivamente nelle Scuole e dare ai ragazzi un messaggio forte che ricordi il sacrificio di tanti uomini che hanno versato il sangue cantandolo per riunire l’Italia sotto un’unica bandiera tricolore . QUINDI L’ INNO DI MAMELI E’ UN INNO MASSONICO !

  2. Stefano Rolando scrive:

    ..sembra ieri e sono passati anni,quando Renzi spuntò l’elezione di Mattarella a Presidente al posto del Dottor Sottile tradendo l’accordo con Berlusconi e attirandosi la guerra totale che lo fece capitolare disastrosamente nel referendum.Se è vero che Renzi è un prodotto della parte obamiana clintoniana dell’America e il Dottor Sottile doveva riequilibrare il potere in Italia,allora il fattore di squilibrio c’è ancora di più oggi con Trump. Se uno dei due deve sloggiare mi è più simpatico Mattarella anche per la storia sua e della sua famiglia e mi è meno simpatico Renzi per la storia sua e della sua famiglia

  3. ilia scrive:

    una grandiosa analisi, che ci porta anche alle connivenze tra mafia e PCUS poi atlantizzato da B.R.linguer (con cugino Manconi banchieri di Gruppo IMI San Paolo Intesa) e a quanto disse Paolo Guzzanti circa i fondi dall’ ex URSS che dopo la caduta furono riciclati tramite banche rosse e su cui Falcone e Borsellino (mai troppo compianti) indagavano.

    Gli stragisti di Lotta Continua al soldo usuraio apolide con braccio mafioso non sono ancora sazi di sangue,specie ora che crolla il loro mondo e a Trump sono inservibili,per non parlare di come li tratterebbe Zar Putin.

    Guardia alta dunque,non siamo ancora fuori dall’ Occhio del Ciclone.

  4. lorenzo scrive:

    provo a trarre una sintesi.
    chi anticipa la reale comprensione di quel che e’ in fieri, muore.
    chi collude o tace non crepa e prospera.

  5. Pingback: Conflitti e Strategie » Blog Archive » Dalla Chiesa e La Torre di P. Laporta

  6. Ho visto la ripresa – tratta da Teche Rai – del discorso di Piersanti Mattarella davanti al Presidente Pertini (ottobre 1979) in visita di Stato in Sicilia. Il discorso è di un politico a caratura di livello nazionale, certo non locale. Pochi giorni dopo arriva a Palermo Cossiga, Presidente del Consiglio Ministri. Piersanti Mattarella gli fa alcune richieste urgenti (dal discorso a Pertini: per avere “un segnale di cambiamento e di rinnovamento nei rapporti della comunità nazionale con la Sicilia”). La risposta di Cossiga non arriva. Qui sembra saldarsi un intreccio di interessi Stato-mafia. Il dualismo nel Pci corrisponde a un dualismo nella Dc: una parte è favorevole all’esperimento politico siciliano, iniziato da Mattarella, l’altra no. Leggi che Mattarella ha varato, sulla destinazione dei suoli rurali e forse altri provvedimenti che si appresta a varare potrebbero interferire sulla realizzazione della base di Comiso. Quello che condanna a morte Mattarella è la sua dimensione di uomo politico a livello nazionale che gli dà involontariamente Pertini e che spinge Cossiga ad andare immediatamente in Sicilia. Altrimenti la presidenza Mattarella sarebbe rimasta un fatto locale: una presidenza anomala che in qualche modo si poteva far cadere o, almeno limitare nella sua funzionalità. Si fa venire un killer da fuori, perché la mafia rampante, che controlla tutto, possa dire: noi non c’entriamo. Ma un delitto simile non si compie senza il consenso della mafia. Questa è una ipotesi del tutto personale.

    • Piero Laporta scrive:

      Più recentemente, due politici meridionali, Emiliano e De Luca, di spessore ben più notevole dello Smargiasso, sembrano aver compreso la lezione degli sfortunati predecessori meridionali, Moro e Mattarella. Ipotesi, la sua, quindi personale ma acuta. Grazie.

      • Quindi, con identica preparazione, identico spessore ideale, identici compagni di cordata, identica passione politica di suo fratello Piersanti, ma, con un pizzico di prudenza, meno visibilità, restando sempre un passo indietro – per non dare troppo nell’occhio – e, con una visione lungimirante, lasciando che il tempo scorra, si diventa Presidente della Repubblica? Sergio Mattarellla è un formidabile incassatore di colpi. Di lui si ricordano tre o quattro occasioni, in cui abbia tirato un attacco diretto, e sempre su problemi politici precisi. Da Presidente ha richiamato – con misura – e una sola volta: Padoan non commenti le sentenze della Consulta. Nessun conflitto, mai, tra le Istituzioni democratiche che devono sempre restare indipendenti tra loro. Che il Parlamento lavori, ma non litigate troppo!
        Ne vedremo delle belle, soprattutto in politica estera, che oggi sembra in cima alle sue occasioni di intervento. E’ proprio qui, che il Presidente Mattarella potrebbe lasciare un segno che vada oltre il suo settennato e che lo proietti oltre la durata della sua carica, perché è un tessitore di consensi. Ma questa, è una previsione del tutto personale.

  7. Luca B. scrive:

    Complimenti per l’articolo, solo oggi ho scoperto il suo sito e blog. Oggi più che mai abbiamo bisogno di persone che sanno e dicono la verità. Grazie

  8. Mapel scrive:

    Un articolo veramente interessante sulla trattativa Stato – Mafia
    Dal resoconto scientificamente riportato sembra che i tasselli vadano al posto giusto per completare un mosaico complesso.
    Sorge una domanda spontanea. Ma allora il processo in atto si può definire un ulteriore depistaggio posto in essere dai professionisti di chiara provenienza ideologica?
    Saluti da Mario P.

    • Piero Laporta scrive:

      Grazie per il commento e per il quesito davvero interessante.
      Non credo che si possa spiegare tutto coi depistaggi. La verità e il falso sono come due gemelli monozigoti perfettamente identici, in apparenza, che accompagnano ogni fatto, i delitti specialmente.
      Solo col tempo, verità e falso si svelano, interagendo l’uno con l’altra, confliggendo secondo un processo dialettico, come direbbe un marxista. A noi non manca chi delinque, si sa, manca invece un contraltare dalla parte della pubblica opinione.
      Il nostro vero problema, il problema italiano è un giornalismo di cialtroni.
      In un qualsiasi paese civile questa faccenda sarebbe stata messa subito davanti agli occhi della pubblica opinione.
      Questo articolo, proposto a Libero e Panorama, li ha fatti tremare. E non mi pare che professino il credo di sinistra.

      • carlo scrive:

        STORIA  DELLA  POLITICA  E  DELLA  LEGGE

        All’inizio c’era un uomo e una donna che formarono una famiglia, che aumentando di numero divenne un clan,che divenne un villaggio,che divenne un borgo,che aumentando di numero divenne una città, che aumentando di numero  divennero uno stato, una nazione, un regno  etc.     Nella famiglia dettava la politica il capofamiglia aiutato dalla moglie, nel clan  dettavano le leggi  i capifamiglia ,nel borgo gli  anziani e  i saggi   o gli stregoni nelle tribù.

        Nella città dettavano le leggi, orali o scritte, un consiglio di degli anziani o capifamiglia (lat. senex) e spesso delegavano per  l’ esecuzione delle leggi  un re  o  un capo permanete o temporaneo.  Questi incominciarono a scrivere leggi di comportamento e di convivenza .  Erano leggi generali fondamentali che si basavano sulla tradizione dei loro padri, oppure risolvevano questioni pratiche  e impellenti di politica o di giustizia  legati al territorio .Queste leggi venivano poi scritte per trasportarle a distanza e non essere cambiate di città in  città e da luogo a luogo  .  Es. un pozzo da dividere, delle pecore che sconfinavano, confini spostati, ladri e omicidi da punire e guerre da decidere ….

        Tra questi inizi di popoli e di  razze e stirpi o  famiglie  in Medio Oriente,c’era un popolo che doveva fare da paradigma ed era guidato direttamente da una grande divinità detta Onnipotente e Creatore. Questa Divinita’ stabilì delle leggi certe per il popolo che Lui guidava . Erano leggi inappellabili generali . Non venivano decise da un capo o da una maggioranza di senex o di saggi o dalla maggioranza degli  anziani come spesso avveniva con altri popoli .No,ma  erano stabilite direttamente  dalla Grande Divinita’ . Chi non le osservava,sulla base di due testimoni, generalmente veniva eliminato senz’ appello . Il contrappasso alle leggi fondamentali e generali  era una severa punizione (“ occhio per occhio, dente per dente”  ) che non era vendetta ma  giustizia o riparazione alla violazione. Quelle leggi ancora adesso sono valide per tutti i popoli  della terra e non cambiano di uno jota . Gli uomini debbono solo applicarle ed eseguirle . A chi tocca farle applicare ed eseguire ? Non al singolo, mai, ma alle varie autorità e saggi. Non sono leggi psicologiche o scientifiche o spirituali o mediche ,ma leggi di comportamento morale generali che possono essere eseguite da ogni uomo .

  9. bellavita scrive:

    complimenti, analisi ampia e d esplosiva. Ma un po’ parziale: in un saggio di queste dimensioni non si può non analizzare i rapporti Dell’Utri-Mangano-Berlusconi, giudiziariamente accertati in via definitiva

    • Piero Laporta scrive:

      Parziale? Ho analizzato alcuni fatti proprio perché carenti sinora delle esaustive certezze “in via definitiva” rispetto ad altri della nostra storia, quali “i rapporti Dell’Utri-Mangano-Berlusconi, giudiziariamente accertati in via definitiva”, come lei giustamente ricorda.
      A che pro dunque analizzare quest’ultimi, se sono già accertati? A meno che lei stesso non dubiti – in tal caso me ne faccia cortese parte – di quelle certezze.
      Grazie per i complimenti, li ricambio volentieri.

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